Cosa abbiamo imparato (davvero) in dieci anni di Digital Update
Ci sono momenti in cui ogni organizzazione deve tornare al suo why. Ma un why estroverso.
Quando una mattina di più di dieci anni fa io e Alessandra Farabegoli ci trovammo a Ravenna per parlare di quello che sarebbe poi diventato Digital Update, cercavamo, come tutti gli imprenditori, di prevedere il futuro, per riempire un vuoto di mercato che prevedevamo si sarebbe sviluppato.
Come non lo sapevamo, ovviamente.
Quello che vedevamo sotto i nostri occhi era che il settore della formazione era infognato in logiche novecentesche, come si dice, e che il digitale aveva bisogno di altri argomenti e di altre forme. E che sempre più persone lavoravano con forme che non erano azienda, non erano agenzia – o almeno, non erano quelle di prima. Il digitale cominciava a consumare i confini della gerarchia, grazie all’uso incontenibile dei social e dello scambio di informazioni di massa. Soprattutto vedevamo che c’era bisogno di capire cosa farci, del web, nel mondo della comunicazione e del marketing (infatti si chiamava ancora web marketing, allora).
Chi ha partecipato a quei primi corsi auto-organizzati in luoghi informali o inusuali (primigeni coworking, agenzie innovative, perfino un ex-carcere) in molti casi oggi è diventato un professionista o un imprenditore “digitale”, in un senso un po’ diverso da quello che si intende oggi per “imprenditore digitale”. Professionisti per cui il digitale era un mindset e non un “trucco” o improbabili segreti svelabili a pagamento.
Come molti imprenditori, forse ci siamo innamorati del nostro sogno romantico di una formazione diversa, mentre il mondo cambiava a un ritmo mai visto. Abbiamo pensato che i corsi in aula fossero insostituibili, e, quando i nostri corsi online sono arrivati, era probabilmente tardi. La stanza era già piena, e con la SEO di allora – ma anche di oggi – si catturava la maggior parte della nuova ondata di “profughi digitali”, in cerca di una formazione diversa, più take-away, ancora più numerosa e price-sensitive.
Cercavi “come fare un piano editoriale”: qualcuno ti dava una risposta (anche giusta, per carità) e catturava la page view e poi il cliente. Noi sul blog spiegavamo che “dipende”. Non funziona allo stesso modo, lo abbiamo visto. Anche Google preferisce le certezze, evidentemente. O forse siamo stati delle schiappe nella SEO, tutto può essere.
Durante e dopo la pandemia è stato il diluvio di dirette, contenuti gratuiti, di webinar, di corsi di Google, Facebook e di chiunque. Da persona che ricorda bene la carestia di contenuti pre-internet e pre-web 2.0 mi fa piacere, un sogno avverato. Naturalmente però diluvio di contenuti e vendita di corsi online sono ossimori, almeno per quanto riguarda il conto economico. In più, in questi anni Meta e Google impattano pesantemente sui costi in acquisizione facendo sparire nei loro bilanci buona parte del margine: oggi, fare formazione sul digitale è più per advertiser sgamati dallo scalping del ROAS che per digital strategist attempati come noi. Può sembrare bizzarro ma è così.
Ci sono dei momenti in cui ogni organizzazione deve tornare al suo why. Non quel why introverso tipico di certi TED Talks, ma un why estroverso, rivolto all’esterno. Trovare il luogo in cui c’è bisogno della propria presenza, anziché sgomitare per nuovi territori da conquistare. In questi anni abbiamo creato una rete di docenti, professionisti che hanno portato e continueranno a portare in azienda quei dipende che credo siano ancora e ancora di più decisivi.
Il nostro luogo è nella voce indipendente da mode e buzz digitali che hanno così danneggiato questo settore; nel portare questa voce a tutti tramite la newsletter e il blog, che compie dieci anni; e nelle aziende, attraverso il network di docenti-professionisti che credono in questa visione indipendente e ad hoc, in presenza, ibrida o a distanza: per aziende che credono che la formazione non sia solo un costo, meglio se pagato da fondi pubblici o di settore, ma un momento di arricchimento e un investimento sul futuro.